Confesso che non sono mai stato il più intrepido dei viaggiatori.
I viaggi mi confrontano con la mia anima ansiosa da disordinato cronico, incapace ad organizzare persino un pic-nic in campagna e ossessivo all’idea di aver dimenticato a casa qualcosa, qualcosa di fondamentale.
E proprio non li capisco quei “matti” come Steve McCurry che, con poche cose, magari una macchinetta al collo, attraverserebbero a nuoto l’oceano se fosse necessario.
Non li capisco, ma un po’ li invidio, a ragion veduta, quando il frutto di queste avventure si trasforma in arte, quando il coraggio e il senso del dovere prevalgono sulla quiete della vita quotidiana.
Per questo apprezzo ed invidio Steve, per questo e per l’incredibile connubio tra arte e vocazione.
Iniziamo dal principio.
“La parte più importante del mio lavoro è narrare storie, è per questo che la maggior parte delle mie immagini posa le sue radici nella gente comune. Sono alla ricerca di quell’attimo di autenticità e spontaneità capace di raccontare una persona.”
Steve McCurry nacque in una tranquilla cittadina della Pennysilvania del 1950, si laureò in Teatro ed iniziò a fotografare all’età di 24 anni per il giornale del suo College.
Quello che a prima vista poteva sembrare un giovane semplicemente un po’ eclettico in realtà nascondeva tutte le virtù necessarie all’inizio di una delle più brillanti carriere nel mondo della fotografia.
Più la tecnica da principiante del giovane Steve si affinava, più si delineavano in lui coraggio, determinazione, curiosità e sensibilità.
Il punto di svolta arrivò durante un viaggio in Pakistan, alla ricerca degli angoli di Asia che, come vedremo più avanti, torneranno continuamente all’attenzione del fotografo.
Durante il suo viaggio Steve alloggiò in un hotel scadente di Chitral, città di confine. Qui conobbe i vicini di stanza, profughi afghani, con i quali strinse amicizia.
Una sera, davanti a un kebab, iniziarono a discutere della fuga di questi dall’Afghanistan in guerra aperta con la Russia, parlarono dei guerriglieri Mujaheddin, degli elicotteri d’assalto sovietici, della distruzione dei villaggi e delle sofferenze del popolo afghano.
Il fotografo rimase incredibilmente colpito dai racconti di quelle persone che avevano perso tutto in un conflitto di cui il mondo pareva essersi dimenticato (almeno fino alla vera e propria invasione sovietica, iniziata poco dopo).
Decise così di raccogliere lo stretto necessario, affrettò un accordo con un gruppo di volontari che si sarebbero uniti presto alla “resistenza” e nel giro di un paio di giorni arrangiò la partenza, a piedi, alla volta delle montagne dove si trovavano gli accampamenti dei Mujaheddin.
Per ammissione dello stesso fotografo, la paura che inizialmente lo assalì, la prospettiva di non tornare, furono presto abbandonate quando ebbe modo di conoscere meglio la sua “scorta”. Rimase stupito di come quegli uomini fossero felici di avere qualcuno attorno che potesse testimoniare la loro storia, la loro guerra e la distruzione della loro nazione.
Dopo tre settimane passate nel conflitto McCurry abbandonò il fronte portando con se gli scatti cuciti all’interno della giacca.
Il suo primo vero reportage ebbe un successo folgorante che gli valse premiazioni (in particolare la “Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad”) e un posto da fotoreporter presso National Geographic.
Passarono pochi anni e Steve venne richiamato in Afghanistan, con l’incarico di fotografare la realtà negli accampamenti di profughi e degli ospedali da campo ammassati al confine col Pakistan.
Durante il resto del conflitto (che durerà fino all’89, dieci anni in tutto) McCurry si sposterà da un capo all’altro della nazione in fiamme, affinando i suoi scatti, che divengono un vivo e brillante riflesso del vuoto e della distruzione che marchiano i sopravvissuti.
Perché proprio ai sopravvissuti, ai fuggitivi, ai reietti sono rivolte le principali attenzioni del fotografo che riporta in vita, negli sguardi e negli atteggiamenti che impressiona su pellicola, non solo l’essenza dei fatti ma anche quella degli uomini che li vivono.
Le immagini di McCurry divengono così un ponte attraverso il quale le differenze di spazio, cultura, vita si affievoliscono ed emergono invece i sentimenti, le emozioni, gli atteggiamenti più umani in assoluto e che, proprio per questo, ci uniscono.
Durante questa lunga serie di reportage in Afghanistan Steve avrà la possibilità di scattare quella che resta indiscutibilmente ancora oggi uno degli scatti più belli e più toccanti di sempre.
“La ragazza afgana. Foto simbolo di un’epoca e capolavoro di McCurry, fu scattata all’interno di una scuola, in un campo profughi nel cuore dell’Afghanistan. La ragazza, all’epoca 16enne, era già orfana da parecchi anni. I genitori di Sharbat Gula (così si chiama la ragazza) erano morti sotto le stesse bombe che distrussero il suo villaggio.”
Steve lasciò la ragazza senza sapere troppo di lei, neppure il nome, ma la risonanza che ebbe questa fotografia fu tale che a distanza di 17 anni un team di National Geographic guidato dallo stesso McCurry tornò indietro a cercarla.
Quando fu ritrovata Sharbat non mostrò entusiasmo, né apprezzò particolarmente di sapere del potere che ebbe lo scatto a favore della causa afgana. Rimase, così confessò lo stesso fotografo, abbastanza apatica e diffidente, tale è l’eredità della miseria e della sofferenza.
Terminata la serie di servizi e pubblicazioni sulla guerra in Afghanistan ed ufficialmente entrato nei ranghi dell’Agenzia Magnum, Steve non ebbe molto tempo per riposarsi, perché la sua era diventata oramai una vocazione.
Quando nel 1990 scoppiò la Prima Guerra del Golfo, dopo che Saddam Hussein, leader iracheno, invase il Kuwait, Steve si precipitò sulla scia della Coalizione anti-irachena per vivere in prima linea gli scenari di guerra.
Il quadro che riportò dipingeva un’intera regione avvolta dalle fiamme nere dei pozzi petroliferi incendiati dagli iracheni sulla via della ritirata.
A fare le spese di quell’inferno furono in primis l’ambiente, gli animali e la popolazione locale che dovette di nuovo fuggire dal conflitto.
Celebre la sua foto di una anatra che annaspa nell’acqua nera ed oleosa. Sulla superficie si staglia il riflesso di un’alta pira di fiamme proveniente dal vicino condotto, probabilmente lo stesso che sta inondando lo specchio d’acqua.
L’impatto diretto delle fotografie di Steve delinea un profilo post-apocalittico e ricostruisce una realtà che, tristemente, ben oltrepassa i limiti dell’immaginazione umana.
La tavolozza di colori si riduce ad un nero antracite, freddo e bruciato, contro la quale si scagliano i bagliori di fiamme infernali.
Terminata la Guerra del Golfo il nostro fotografo non smise un secondo di attraversare il mondo e di immortalare i conflitti che lo dilaniano: Sri Lanka, ex Jugoslavia, Tibet e Filippine sono solo alcuni dei paesi dove Steve si sentì obbligato ad intervenire.
Non smise mai di visitare saltuariamente l’Afghanistan che, oggi come ieri, sebbene libero dal dominio dei Talebani, continuava a portare le ferite di un lungo e sfiancante decennio di distruzione.
“I ricchi sono inaccessibili, vivono dietro un cancello e non sono visibili. Diversa la situazione dei poveri: li puoi fotografare, ci puoi parlare, sono accessibili e visibili.”
Appena tornato da un lavoro svolto in Cina Steve McCurry, sfiancato, crollò nel letto di un hotel di Washington Square, solo per esser svegliato, poche ore dopo da un rombo distante e dallo squillare insistente del telefono.
Era sua madre che lo avvertiva dell’attacco terroristico alle torri gemelle.
Dal suo balcone vide le torri bruciare, e realizzò una delle fotografie più “chiare”e iconiche dell’avvenimento. Non vi è traccia del McCurry dai colori brillanti e dalle prospettive intriganti, solo una cruda e diretta testimonianza di quel giorno.”
Ebbe sempre pesante la memoria di quell’evento, tanto che cambiò laboratorio, perché il tragitto precedente lo costringeva a passare nei pressi del Ground Zero: sembrava che quando non cercasse lui la guerra, la guerra cercasse lui.
Sarebbe riduttivo costringere il lavoro di Steve all’ambito dei racconti di guerra.
Buona parte del suo lavoro infatti gira attorno ad un’idea di ricerca più personale.
Spesso si recò in Asia, in quella che reputava la parte di più antica ed esotica del mondo, impegnata in un pittoresco ed irriducibile conflitto con la globalizzazione, alla ricerca delle tracce del nostro passato.
Nel laboratorio di McCurry si contano oltre 800.000 scatti su pellicola Kodachrome, della quale il fotografo aveva sempre una notevole scorta poiché, nella sua opinione, i migliori in circolazione.
Solo quando la Kodak decise di fermare la produzione Steve dovette passare oltre.
Ma non lo fece in silenzio, anzi domandò alla Kodak l’ultimo rullino in assoluto, 36 “pallottole” per rendere omaggio alla pellicola che più di tutte riassumeva la sua carriera e la sua idea di fotografia.
Iniziò così come aveva sempre fatto, con una passeggiata nel cuore di New York, alla ricerca di uno scatto iconico che potesse catturare l’essenza della città.
Alla fine Steve optò per Robert De Niro, un personaggio storico del cinema statunitense e del panorama newyorkese.”
Da New York all’India il passaggio per Steve fu quasi automatico: ogni scatto doveva infatti essere speciale.
“In India catturò buona parte dei suoi ritratti letteralmente affascinato dai volti pittoreschi e dai colori della tradizione tribale.
“L’ultimo rullino” è senza dubbio un capolavoro e omaggia, nella forza dei suoi colori, tutta l’energia di una pellicola che sembra esser stata fatta su misura per un fotografo come Steve McCurry.
Steve McCurry è ancora oggi in attività come uno dei più rilevanti fotografi del nostro tempo e ci continua a stupire con scatti che regalano splendide sintesi di forma e contenuto.
Non riesco, quando guardo le sue fotografie, a non tornare con la mente alle composizioni variopinte e graffianti di Lachapelle e al cuore e alla sensibilità di Salgado.
Sicuramente McCurry ha le carte in regola per sedurre e ispirare ogni appassionato di fotografia, tuttavia converrai con me che mettersi l’elmetto e correre al fronte più vicino possa non essere una scelta particolarmente saggia!
Allora cosa può insegnarci di unico un mostro sacro della fotografia come lui?