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Sebastião Salgado: uomini, natura e vita secondo un genio moderno

29 Gennaio 2018





Sebastião Salgado

E’ impossibile non rimanere incantati di fronte alla fotografia di Sebastião Salgado.

I suoi scatti in bianco e nero sono d’impatto formidabile, la maestosità prorompente, il messaggio chiaro e deciso.

Ma se oggi apprezziamo così tanto il suo lavoro non è solo per la bellezza della sua fotografia ma per il coraggio che mostra quest’uomo determinato più che mai a raccontare le sue storie.

Storie che, non ha caso, lo hanno collocato da anni tra i più grandi ed impegnati fotografi contemporanei.

Ma chi è questo leggendario grande fotografo? Scopriamolo insieme.

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La vita di Sebastião Salgado

Sebastião Salgado nasce nel sud del Brasile, nel febbraio del 1944.

Trascorre l’infanzia in una fattoria – comunità, localizzata nel mezzo di una porzione di foresta pluviale, in cui suole passare le lunghe giornate giocando a contatto con la natura.

In giovinezza milita negli schieramenti degli attivisti di sinistra dove incontra Lelia Wanick, carissima amica ed in seguito compagna di viaggio e di vita.

Tuttavia paga caro il prezzo delle sue scelte politiche poiché il regime dittatoriale brasiliano lo obbliga ad abbandonare la sua terra, cosa che Salgado farà a malincuore per proteggere se stesso e la sua famiglia.

Trovato, assieme a Lelia, rifugio in Francia, prosegue i suoi studi fino al conseguimento della laurea in economia e statistica.

Laurea che – sostiene Salgado – si rivela di fondamentale importanza nel formare la sua visione della realtà.

Ma è soltanto durante un viaggio in Africa all’inizio degli anni ’70 che realizza in pieno la portata che può avere la fotografia, la sua efficacia nel documentare la realtà.

Da questo momento in avanti decide di sfruttare appieno il potenziale della pellicola e percorre il mondo in lungo ed in largo sempre armato di macchina.

Come Bresson condivide inizialmente la passione per una Leica da 35mm; si muove poi con una Pentax ed infine una Canon 1Ds Mark III.

Salgado Sahel

Uno dei primi fotoreportage di Salgado (1973) testimonia la misera delle popolazioni costrette ad abitare lo spietato deserto del Sahel, tra la savana del sud ed il Sahara del nord.

La potenza delle immagini di Salgado non tarderà a farsi riconoscere ed il suo nome diverrà presto sinonimo di una nuova tecnica di fotoreportage che non nasconde le crudezze della sofferenza ma che allo stesso tempo è capace di avvolgerle con un alone di romanticismo, una veste impalpabile di etereo, di mistico.

La sua educazione e le sue ideologie politiche orientarono spesso il suo operato in direzione delle categorie di lavoratori maggiormente sfruttate e poco tutelate. Nella raccolta “La mano dell’uomo” ebbe numerose occasioni di sottolineare le contraddizioni delle società americane ed europee, ritenute le più progredite tra tutte .

La fotografia si fa così vocazione ed egli decide di affiancarsi a diverse agenzie fotografiche per poter condurre i suoi progetti, interpretati da lui come vere e proprie missioni di durata pluriennale.

Sentendosi però vincolato Salgado deciderà di abbandonare persino l’Agenzia Magnum e fonderà, assieme alla moglie nel 1944, la Amazonas Images.

La sua nuova agenzia sarà la consacrazione del suo sogno di fotografo e la promessa di un impegno duraturo e costante a favore di quella che è la sua “missione di vita”.

Gli uomini secondo Salgado

“Quando fotografo io respiro la fatica dell’uomo, i suoi ritmi, le sue angosce.  Ma anche le sue speranze” – Sebastião Salgado

La “fotografia militante” di Salgado offre nell’arco degli anni un’ampia e variegata panoramica sulle condizioni di lavoro e di sopravvivenza di operai,migranti e indigeni.

Salgado si immerse nelle miserie dell’Africa, dell’America Latina e dell’Europa e ne uscì con immagini lucide e surreali come triste specchio sulla realtà.

I suoi scatti sono spesso talmente tanto vivi che non necessitano di spiegazioni o di parole.

La miniera d’oro di Sierra Pelada in Brasile, 1980. Salgado offre una immagine che ha la potenza e la disperazione di un girone dantesco. 

Pastori del deserto. Nonostante i suoi viaggi nel continente saranno spesso diretti verso le realtà più povere questo non gli impedirà di innamorarsi della grezza e rurale bellezza dell’Africa.

Lo spettro di bianco e nero divenne una scelta stilistica che lascia all’osservatore lo spazio necessario per espandere la propria immaginazione, laddove i colori, a detta del fotografo, agirebbero da distrazione.

Dal 1973 fino al 2000 Salgado proseguì la sua ricerca concentrato su un unico soggetto: l’uomo e le sue contraddizioni che irriducibilmente lo conducono alla miseria.

La povertà, la fame, la morte e la guerra divennero per questo il suo pane quotidiano.

Ma le sue non sono certo immagini di rassegnazione.

Spesso si può notare al contrario che, anche nel mezzo della miseria, vive una speranza, un filo di dignità che seppur sottile si annida negli sguardi, nelle pose e nel carattere dei suoi personaggi e che ben si distacca dalla rassegnazione che ci si aspetterebbe di trovare in mezzo a tutta quella desolazione.

Per questo, nell’immaginario del fotografo, gli esseri umani talvolta appaiono come gli eroi, i guerrieri, i martiri, i vagabondi dell’arte classica, vivi e determinati anche di fronte alla sofferenza.

Una rivolta contadina in Brasile. Uno scenario così distante dalla nostra realtà, che appare ai nostri occhi vecchio di secoli .

Un minatore che litiga con un militare. L’uomo, dal fisico statuario, non sembra aver alcun timore del fucile puntato contro di lui: soprusi e la minaccia delle armi sono cose abituali là dove si lavora in condizioni di schiavitù.

A differenza di Robert Capa, protagonista e testimone dei grandi eventi mondiali che hanno attraversato la sua vita, Salgado ha spesso preferito dedicare le sue energie a cause  molto lontane dai riflettori.

Si potrebbe dire che Salgado fu sempre restio ad intervenire laddove si percepiva un clima di emergenza proprio per via della “popolarità” che certe tragedie, certe ingiustizie avevano nel mondo.

Il suo scopo è stato proprio quello di dar voce a chi ancora non è riuscito a farsi sentire, di mostrare al mondo non quello che già si sa, ma realtà dure e ingiuste che persistono da lungo tempo, nell’indifferenza generale.

Fedele alle sue origini, uno dei temi centrali della sua lotta è quello a favore delle popolazioni tribali dell’Amazzonia, molte delle quali, minacciate dalla deforestazione, rischiano ancora oggi di subire il peggio dal progresso della nostra civiltà.

Donne della tribù di Zo’e, Amazzonia, Brasile.

Uno dei suoi lavori più importanti inizia nel 1994 e si chiama “Migrations”.

La raccolta, redatta in 6 lunghi anni di lavoro, lo porta in oltre 35 paesi alla ricerca di testimonianze sulle migrazioni di massa, sulle condizioni in cui sono costretti a sopravvivere i rifugiati e i reietti e sulle persecuzioni che spesso li costringono ad abbandonare la loro terra.

Scatto che ritrae i bulldozer indaffarati tra cadaveri e macerie. Scattata in Rwanda, durante uno dei più grandi genocidi che l’Africa abbia mai conosciuto, 1994.

La realizzazione di Migrations ha un peso tale sulla sua psiche e, di conseguenza, sulla salute di Salgado che al termine del progetto, nel 2000, decide  di ritornare in Brasile, alla sua fattoria natale e di mettere da parte la macchina fotografica.

La Natura secondo Salgado

“Fino ad allora, l’unico animale che avevo fotografato era stato l’uomo: era arrivato il momento di immortalare tutti gli altri animali. Volevo fotografare panorami ma anche lo stesso uomo in ciò che era all’origine, cioè immerso nella natura”. – Sebastião Salgado

Il legame tra Salgado e la foresta in cui giocava ancora bambino ha un effetto profondo sulla visione del mondo del fotografo.

In particolare egli non si rassegna all’idea che il progresso non possa avvenire in una condizione di equilibrio, di rispetto reciproco tra l’uomo e la foresta.

Quando torna alla sua prima casa, la verdeggiante fattoria – comunità in cui è vissuto da bambino si è trasformata in una terra abbandonata, brulla, cotta dal sole.

Su consiglio di Lelia nasce allora l’idea di restituire alla terra ciò che le è stato sottratto: Salgado decide di ripiantare ogni singolo albero abbattuto.

Nel giro di 4 anni la sua terra torna allo splendore, e lo stesso Salgado si rigenera completamente.

La nostra società può offrirci quasi tutto, ma difficilmente potrà mai regalarci dei panorami così incredibili.

Salgado decide allora di non fotografare più solamente l’uomo, ma di dedicarsi all’essere umano “delle origini”, quello capace di vivere in equilibrio ed armonia col mondo che lo circonda.

Non solo: decide anche di fare della meraviglia per la spettacolare bellezza del nostro pianeta la sua “nuova missione”.

Le immagini possono risvegliare le coscienze come una premessa necessaria all’avvio di qualche azione. Un’immagine è come un appello a fare qualcosa, non soltanto a sentirsi turbati o indignati. La foto dice: “Basta! Intervenite, agite!”. – Sebastião Salgado

Per questa ragione, dal 2004 in avanti, il suo lavoro si concentrerà su maestosi animali e panorami mozzafiato.

Da “Genesis“, di S. Salagdo. Il ghiaccio dell’Antartide. In alto a destra sembra quasi di vedere una torre medievale che si erge a guardia del mare.”

pinguini salgado“Una colonia di pinguini si estende per miglia fino alle pendici di un vulcano di ghiaccio.”

Un impegno che prosegue tutt’ora, finalizzato al diffondere la coscienza della bellezza indescrivibile che già ci circonda e che i paradossi della società e della civiltà del nostro tempo consumano di giorno in giorno.

Il libro “Genesis”, uscito nel 2011, è la sintesi di quella che si potrebbe considerare la prima parte di questa sua nuova missione.

 

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Ancora oggi, Salgado e sua moglie, sfruttano il potere della fotografia per battersi al servizio del pianeta e degli emarginati.

Questo panorama, situato tra il Canada e l’Alaska, è la copertina di Genesis, ed una delle mie fotografie preferite di Salgado. L’incredibile composizione delle catene montuose sembra uscire direttamente dall’immaginario di un libro fantasy

Il sale della terra: Wim Wenders racconta Salgado

Negli anni successivi alla terminazione di genesis, Salgado viene coinvolto da un altro grande artista, Wim Wenders, in un film documentario sulla sua esperienza quarantennale di fotografo.

Fra immagini crude tratte dai suoi famosi reportage e parentesi di interviste nella sua fattoria nella foresta amazzonica, Wenders costruisce un documentario che è un piccolo capolavoro di forma e sostanza.

Un documentario che mette insieme l’uomo e la natura per parlarci della vita a 360 gradi.

Ne esce fuori un ritratto del fotografo complesso, affascinante, imperdibile per chiunque ami la sua opera: “Il sale della Terra“, questo il titolo, non a caso tratto da una citazione biblica che si riferisce all’uomo.

Una Lezione da Sebastiao Salgado

Salgado cominciò a fotografare quando aveva ormai 30 anni. Fu una cosa casuale e furono i suoi studi di economia a condurlo in Africa per la prima volta.

Per questo è lui stesso che vuole darci una lezione: “studiate!”

Sebbene non appaia pertinente ad una prima occhiata lui riconosce nella sua formazione da economista una delle più grandi leve del suo lavoro, capace di riplasmare la sua visione del mondo, dell’uomo, della cultura e della realtà.

La sua non è solo una lezione di fotografia ma una lezione di vita.

Ogni sapere, ogni conoscenza può essere utile a raggiungere i propri scopi, ad arricchire le proprie passioni con quell’elemento all’apparenza superfluo che però è talvolta in grado di divenire rivoluzionario e radicale.

Le nostre strade sono spesso imprevedibili ed ogni cosa di cui facciamo tesoro e che portiamo con noi può essere in grado di aprire di fronte a noi nuove opportunità: così come un semplice viaggio in Africa cambiò per sempre la storia della fotografia, regalandole un nuovo genio.

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