16 Gennaio 2019
“Le persone sono il mio soggetto preferito perché non ce n’è una uguale all’altra. Il mio lavoro, in questo modo, non diventa mai noioso!” – Robert Frank
Sono pochi quelli che non si lasciano ingannare dalla superficie delle cose, ma che preferiscono scavare in profondità per capire cosa si nasconde davvero sotto tutto quel trucco, quel bel vestito elegante o quel sorriso stranamente luminoso.
Il fotografo di strada Robert Frank, ormai quasi centenario, è una di queste persone.
Non si accontentava di interagire con le maschere, voleva scoprire il vero volto dei luoghi, delle persone e delle situazioni che incontrava sul suo cammino.
Nelle sue fotografie si scorge la vera essenza dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta, una realtà fatta di contraddizioni e illusioni che nessuno, all’epoca, era davvero pronto a vedere.
Oggi ti racconto la storia di Robert Frank. Che è la storia della caduta del grande sogno americano, ma anche quella della nascita e consacrazione della Street Photography così come la conosciamo oggi.
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Robert Frank nasce a Zurigo nel 1924 da una famiglia di origini ebraiche. Il suo amore per la fotografia sboccia in tenera età quando, appena adolescente, inizia a lavorare come assistente di Michael Wolgensinger, un famoso fotografo svizzero. Durante l’apprendistato Frank impara a stampare i negativi, a tagliare le immagini e a classificarle secondo precisi criteri.
Man mano che il tempo passa, il giovane acquista sempre più confidenza con la macchina fotografica e inizia a sperimentare con l’obiettivo: ritrae paesaggi, eventi sportivi e culturali in cui si imbatte per le strade di Zurigo, ma anche festività cittadine.
Il servizio militare lo costringe a interrompere la sua sperimentazione che riprenderà solo nel 1946 a Parigi, dove si dirige per tentare di avviare una carriera da fotografo indipendente.
È proprio in questo periodo che i soggetti dei suoi scatti cambiano: Frank passa dall’immortalare festose parate cittadine alla desolazione e distruzione che la guerra si è lasciata alle spalle.
Case in rovina, povera gente che cerca a tutti i costi una maniera di sopravvivere e di ricostruirsi una vita. Robert sviluppa uno sguardo particolare su situazioni simili, lo stesso che lo accompagnerà nel viaggio da cui nascerà poi The Americans, la sua opera più controversa.
Una donna anziana siede in mezzo a una strada di compagna, stringendo fra le braccia un bambino
Nel 1947 prende una decisione. Vuole lasciare l’Europa per tentare la fortuna negli Stati Uniti, quella terra promessa ricca di opportunità di cui ha tanto sentito parlare. Così si imbarca su una nave diretta a New York e, una volta arrivato a destinazione, non ci mette molto per trovare un lavoro proprio nel campo della fotografia.
Conosce Alexey Brodovitch, il direttore della famosa rivista di moda Harper’s Bazaar. Dopo avergli mostrato un portfolio composto da circa 40 scatti appartenenti al periodo svizzero, ottiene il suo primo impiego come fotografo indipendente.
Brodovitch gli consiglia di abbandonare la Rolleiflex con cui aveva scattato fino ad allora per passare a una Leica 35 mm, che gli avrebbe permesso di fotografare con una sola mano. Mai scelta fu più azzeccata: la Leica fu una vera e proprio rivoluzione per Frank, che da allora non la abbandonò più.
Nello stesso periodo Robert conosce anche Joel Meyerowitz, che rimane talmente colpito dal fotografo svizzero da convincersi a dare le dimissioni dall’agenzia pubblicitaria per cui lavorava e inseguire il suo sogno: diventare un fotografo di strada.
Qualche anno più tardi, nel 1955, Frank vince una borsa di studio della Fondazione Guggenheim di New York. Nessun europeo prima di lui aveva mai avuto l’opportunità di accedere al premio. La vincita arriva al momento giusto, proprio quando Robert si rende conto che ormai la fotografia glamour non lo rispecchia più.
Grazie ai finanziamenti ricevuti dalla Fondazione, Frank può invece dedicarsi a un progetto che lo impegna anima e corpo: un viaggio attraverso gli Stati Uniti, allo scopo di raccontare la propria visione sull’esistenza umana. Scatta più di 23.000 foto ma alla fine ne seleziona “solo” 83, che andranno a comporre quella che è forse la sua opera più importante: The Americans.
C’è un uomo che indossa un camice bianco. Si trova in un angolo della stanza, o meglio, di un bagno pubblico pieno di vespasiani attaccati alle pareti. È chino sui piedi di un altro uomo, che invece se ne sta seduto nel suo bel completo elegante su una specie di trono, mentre sorregge la fronte con una mano.
Guardando la scena da lontano si capisce che l’uomo con il camice bianco è un sciuscià, ovvero una persona (di solito un immigrato, magari di origini italiane) che lucida le scarpe altrui in cambio di pochi spiccioli. (Sciuscià è una parola napoletana che deriva da storpiatura dell’inglese shoe-shine).
L’atmosfera dello scatto è decadente, il bianco e nero non fa altro che accentuarne la drammaticità. Niente a che vedere, dunque, con le immagini patinate e sfavillanti che raccontavano il grande sogno americano nelle pagine di tutte le riviste dell’epoca.
Un sciuscià lucida le scarpe a un cliente in un bagno pubblico
Questo è The Americans, il frutto dello sguardo disilluso, crudo e a volte critico di Robert Frank nei confronti della società americana. È una rivolta contro quei meccanismi che lui stesso aveva contribuito ad alimentare durante i suoi primi anni di attività come fotografo di moda negli Stati Uniti.
Il critico Sean O’Hagan disse che The Americans “cambiò l anatura stessa della fotgorafia … cosa si poteva esprimere con essa e come si poteva farlo … The Americans è probabilmente il più influente libro di fotografia del ventesimo secolo”
Con questo lavoro Robert dice definitivamente addio a un tipo di fotografia pubblicitaria e commerciale che ormai non lo rispecchia più, e decide di buttarsi completamente in un progetto che, purtroppo, non incontra il favore della critica dell’epoca.
Già, perché il concetto che sta dietro a The Americans è troppo all’avanguardia per la fine degli anni Cinquanta. Gli scatti di Frank parlano di una realtà contraddittoria, buia e incerta, che nessuno vuole davvero vedere (specialmente dopo la fine di un conflitto mondiale).
Da un punto di vista tecnico poi, il fotografo stravolge tutti gli schemi. Alcuni scatti sono sovraesposti, in altri invece sono le ombre a farla da padrone. L’utilizzo sapiente delle sfocature e i tagli tanto decisi quanto inusuali che Frank conferisce alle sue immagini hanno lo scopo di accentuare l’intensità della narrazione, che ci racconta del razzismo, del consumismo e delle differenze tra ricchi e poveri.
La fotografia di Robert Frank è pura, non c’è spazio per le pose o per composizioni complesse, ma questo non significa che non ci siano da parte del fotografo scelte formali consapevoli. (Per approfondire il rapporto fra forma e contenuto nella fotografia di strada leggi questo articolo).
Un uomo viene ritratto su un treno, mentre aspetta di poter scendere dal convoglio
The Americans è il tentativo di sollevare il tappeto dell’apparenza per spazzare via la povere che si è accumulata, e restituire così al pavimento sottostante la dignità di un tempo.
A Frank piace grattare la superficie delle cose per scoprire cosa c’è sotto, per carpire la vera essenza di un luogo, persona o situazione. Ecco perché oggetti come macchine, jukebox, strade e insegne diventano simboli di una realtà che è molto diversa da quella che i potenti vogliono vendere al popolo.
“La cosa più importante è riuscire a vedere ciò che è invisibile agli occhi della maggior parte delle persone”, afferma.
Robert vede i reietti, le vittime del razzismo, vede una politica corrotta e della povera gente che fatica a sbarcare il lunario. Gli ultimi diventano i protagonisti di un’opera che, in 83 fotografie scattate in lungo e in largo per gli USA, smaschera il volto eroico e pretenzioso dell’America degli anni Cinquanta per mostrare la sua vera essenza, fatta di problemi e disparità sociali che nessuno vorrebbe mai vedere.
Jack Kerouac, autore di “Sulla Strada” e grande amico e compagno di viaggio del fotografo, infatti sostiene: “Chi non ama queste immagini, non ama la poesia […] Robert Frank, svizzero, discreto, gentile, con quella piccola macchina fotografica che fa spuntare e scattare con una mano, ha saputo tirar fuori dall’America un vero poema della tristezza”.
A partire dagli anni Sessanta, Frank decide di abbandonare la fotografia per dedicarsi totalmente al cinema. Produce alcuni cortometraggi, fra cui un documentario sulla vita dei Rolling Stones. Dopo la morte della figlia Andrea (avvenuta in un tragico incidente aereo), Robert sente l’urgenza di ricominciare a fotografare, anche se il suo stile cambia: oggi si dedica a comporre collage utilizzando vecchie polaroid, incidendo e scrivendo direttamente sul lato sensibile della pellicola.